Il mio nome è Gavroche. Vi scrivo dalla mia stamberga , un monumento bizzarro, che di certo nessuno tra voi ricorderà e che fu pretesto irrisolto dell’Imperatore, Napoleone s’intende. Nella notte è così maestoso quanto può apparire impacciato e burbero ai borghesi durante le passeggiate del mattino al parco. Con il disprezzo che li contraddistingue sfregiano le sue travi sconnesse, il bronzo annerito dal muschio, rivolto più al committente caduto che a quella povera bestia isolata. Vi chiedete perché non dorma in un bel parco quando scura? Perché noi mocciosi non abbiamo il diritto di entrarvi . A me non importano queste disposizioni d’ordine, ma sapete vecchiacce che strepitano di qua, quelle non mancano mai, i gendarmi di là… non è facile resistere, non che ne sia incapace, badate. Vivo da solo. Non esattamente, forse. Quando soffio la candela, stringendo il tempo perché mi costa un soldo al mese, si sente intorno un comune stridore sulla rete che circonda il mio materasso , sul pavimento. Pensate un po’ mi hanno persino mangiato il gatto! Le prede che danno la caccia al felino è un gran bel ribaltamento dello spiccio. Che dispiacersi, in fondo sono troppi per vivere tutti lì sotto, nei condotti delle cloache, finanche i timidi sorci hanno bisogno di una baracca. Non è strano che abbiano scelto il mio elefante, magari un po’ squassante e rude, lo ammetto. Si scova nell’angolo a sud-est della piazza della Bastiglia , se volete venire a gettare un’occhiata non dovete far altro che attraversare lo steccato, avvicinarvi alle zampe e tirarvi su nella bocca. Se l’entrata fosse serrata chiedete al portiere di Gavroche. Sono i cagnotti che mi costringono a barrare così il passaggio al casotto, se non voglio essere riacciuffato. La mia famiglia abita alla topaia Gorbeau, dalla vecchia mamma Burgon. Ero troppo chiassoso per loro, così mi hanno gettato con un calcio sulla strada, in modo che rientrassi in casa mia. Pensate! L’ultima volta che ho visto mio padre l’ho aiutato ad evadere dalla prigione e nemmeno sapevo fosse lui, mio padre, quell’ombra intirizzita e sudicia pendula su un muro di nove metri. Montparnasse, in pieno acquazzone, è venuto come una scheggia a chiamarmi per quella commissione. Mi guadagno il pane da solo, onestamente, qualche lavoretto di qui, qualche vecchiaccio che bisogna di un moccioso svelto ed abile di là. Vado a zonzo per il quartiere del Chateau-d’Eau, su Rue Du Temple. Non nascondo che di tanto in tanto randelli come disagevole mestiere, ma noi miserabili viviamo alla giornata e non abbiamo bisogno di ritrovarci lo stomaco pieno per sentirci saziati dall’ esistenza. La strada ci va a genio. Avvolta dai diamanti incastonati nel cielo, l’ebbrezza di spiegare le ali e vibrarci nel vento notturno, raggi al crepuscolo che squarciano le nubi rosseggianti, lanciandoci oltre la miseria che accomuna gli sciagurati intabarrati e sentire il sollievo dalla stretta che ci lega per levarci in aria, con una leggerezza comunemente sognata da un paese assopito. Fino a quando terrò le scarpacce lerce saldamente radicate nelle nuvole ogni quartiere della mia Parigi sarà uno stambugio familiare e sicuro. Adesso devo andare. Si battono per la rivoluzione ed anch’io devo dare il mio sostegno al 5 giugno 1832, che vedrà tutta la città insorgere contro la tirannia! Questa sì che è musica per le mie orecchie! Viva la Francia! Viva la Rivoluzione! Viva me!
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